In aumento in Lombardia i negozi e le
aziende che accettano la criptomoneta. Per curiosità o pubblicità, ecco
le storie di chi si è convertito al Bitcoin
di Luca Zorloni
Milano, 19 febbraio 2014 - Sulle vetrine di alcuni
negozi, nella giungla di loghi di carte di credito, buoni pasto e orari, fa
capolino da qualche settimana una B gialla, con due stanghette verticali. Ricorda il simbolo del dollaro e in effetti, di moneta si tratta.
«Qui si accettano Bitcoin». La valuta è digitale, nata su internet e «stampata» da pc. I negozi, invece, sono reali: fanno parte delle oltre
130 attività italiane (secondo l’autocensimento sul sito
coinmap.org) che ritirano Bitcoin, una
trentina in Lombardia. Dal
benzinaio al ristorante, dall’agriturismo al centro sportivo, dall’affitta-camere al taxi, il conio virtuale ha fatto proseliti anche all’ombra della Madonnina.
Sparuta
avanguardia, incuriosita dal fenomeno finanziario del momento, da
commissioni rasenti lo zero e animata da sano spirito di marketing. Le
transazioni si contano ancora sulla punta delle dita, ma la
promessa di Bitcoin è ambiziosa: una moneta che possa essere scambiata tra persone che non si fidano tra loro;
operazioni impossibili da duplicare, archiviate su un registro
pubblico, il cosiddetto «block chain»; pagamenti rapidi senza
sovrastrutture, dalle banche, centrali e non, alle autorità di
vigilanza. Perché il
Bitcoin è figlio della rete: creato nel 2009 da un anonimo (o più) che si fa chiamare Satoshi Nakamoto,
viene coniato dagli stessi computer che registrano i pagamenti. Una
moneta orizzontale, certificata da crittografia e matematica. Con un
tasso di cambio però – sottolineano gli scettici – che corre su un
ottovolante (dagli oltre 1.200 dollari a dicembre a 600, mentre su uno
dei siti di scambio, Mtgox, è crollato a 220 nei giorni scorsi) e
l’anonimato, o meglio lo pseudonimo, con cui si effettuano le
transazioni.
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